di Carlo Benedetti

Agim Ceku Dopo l'addio a Belgrado - sancito dal Montenegro del premier Milo Djukanovic - ecco che si stacca un'altra tessera del mosaico dell'ex Yugoslavia. Tocca al Kosovo che, sotto la leadership di Agim Ceku, lascerà ora la Serbia di Vojislav Kostunica. Ed è la fine annunciata - questa volta ufficiale - di quella che un tempo era definita "Repubblica Socialista Federativa di Yugoslavia", organizzata e difesa dal leggendario Josip Tito, ma sempre osteggiata da stati come la Germania e il Vaticano. E, da ultimo, vittima dei nazionalismi più sfrenati e di una Nato che ha camuffato come "intervento umanitario" una sua guerra volta ad affermare una nuova egemonia politica e militare occidentale sull'Europa sud-orientale, infierendo nuove sofferenze alle popolazioni locali e violando sempre il diritto internazionale. Una guerra, in sintesi, che è stata l'ultimo effetto collaterale (si spera, almeno…) della Grande Guerra. Il Kosovo (un milione di abitanti) appendice della Serbia e oggetto principale della politica espansionista dell'Albania si è trovato, in tutti questi anni, a svolgere un ruolo-cuscinetto tra Tirana e Belgrado. Già nel 1992 la sua popolazione si era espressa a favore dell'autonomia. Ma Belgrado aveva deciso di continuare sulla sua strada tenendo ferma l'unità del Paese. Poi le drammatiche vicende dell'intera Yugoslavia hanno fatto sì che il Kosovo - praticamente risparmiato dalla guerra civile in Bosnia-Erzegovina - è caduto nella trappola della vicina Albania. Con paurose spinte autonomiste sfociate in una guerra civile che ha consentito alla Nato (nel 1999) di intervenire direttamente. E così, dopo una campagna di attacchi aerei, il governo federale di Belgrado, è stato costretto a ritirare dalla sua regione kosovara le proprie truppe. Che sono poi state sostituite da un contingente multinazionale (Kfor) cui si è affiancata un'amministrazione civile dell'Onu con il compito di guidare il Kosovo verso l'autodeterminazione. Gli scontri etnici sono continuati e la popolazione serba (circa il 10% del paese) è stata costretta a fuggire dalla sua stessa terra rifugiandosi nella più sicura Serbia. Con i kosovari-albanesi che, spinti dall'estremismo di Tirana e dalla formazioni militari di quell'organizzazione terroristica che è stata l'Uck, hanno preso il sopravvento. Prima propagandando un atteggiamento moderato con il leader Rugova (presentato come il Gandhi dei Balcani che si affermò alle elezioni del 2001) e poi mostrando il vero volto della lotta più agguerrita contro i serbi (sostenuti dal loro partito Povratk) e contro la Federazione.

Ora si è al punto di svolta. Lo annuncia il "premier" kosovaro Agim Ceku (una delle figure più emblematiche della nuova "nomenklatura" locale che mira ad affermare il proprio potere al di fuori di ogni reale dibattito democratico e di ogni controllo popolare) con questa dichiarazione che è un vero programma: ''I tempi sono ormai maturi perché - dice - la comunità internazionale riconosca l'indipendenza del Kosovo dalla Serbia così come avvenuto per il Montenegro''. Preme così l'acceleratore sulle vicende istituzionali e diplomatiche che si dibattono in queste ore a Belgrado e nelle altre cancellerie dell'area ex yugoslava. ''Non c'è nessuna buona ragione - aggiunge - per ritardare la decisione sulla sovranità del Kosovo, perché l'indipendenza è la condizione essenziale per lo sviluppo economico della regione". L'esponente di Pristina fa poi leva sul fatto che il Kosovo avrebbe "un settore finanziario ben sviluppato, un buon sistema fiscale con aliquote basse e regole semplici, conti pubblici in buono stato e un sistema commerciale liberale". Ma per attuare un vero programma di ulteriore sviluppo avrebbe bisogno della sovranità - questa la tesi di Ceku - per incoraggiare gli investimenti stranieri. Sin qui i desideri di un personaggio che si appresta a divenire un interlocutore europeo al pari dei capi di stato dell'ex Yugoslavia. Ma non si può dimenticare comunque che, al di là delle tesi propagandistiche del nuovo leader, il Kosovo è uscito dalla guerra con un'economia in ginocchio e un alto tasso di disoccupazione e, di conseguenza, in una condizione di povertà diffusa.

Detto questo sarà bene conoscere da vicino il nuovo leader kosovaro ricostruendo la sua biografia che, per ora, è solo affidata a ritagli di stampa, a voci e commenti. Agim Ceku è nato a Pec, in Kosovo, nel 1960. Terminato il ginnasio militare a Belgrado, ha studiato per due anni all'Accademia militare della stessa città e poi si è diplomato come artigliere all'Accademia militare di Zadar. Dal 1984 al 1990 è stato comandante di plotone presso la scuola degli ufficiali di riserva della Jna (l'esercito della Jugoslavia) e, dal 1990 al 1991, è stato comandante di plotone nel centro di addestramento Jna di Zadar. All'inizio della guerra in Croazia è passato al Corpo d'Armata della Guardia Nazionale, dove è diventato comandante di una batteria di mortai a Zadar e, successivamente, comandante del battaglione Novigrad-Paljuv-Pridrag. Nel febbraio del 1992 è diventato comandante del battaglione "Maslenica" e nel luglio dello stesso anno è diventato comandante della divisione anticarro della 112a brigata. In breve tempo è stato nominato comandante di un reparto nel settore d'armata di Gospic e quindi comandante in capo di tale territorio. Con tale incarico ha partecipato alle operazioni "Lampo" e "Tempesta" ed è stato incaricato della principale direzione dell'attacco; ha collaborato alle operazioni militari nella Bosnia occidentale. E dopo la fine della guerra, nell'esercito croato ristrutturato, il croato Franjo Tudjman lo ha nominato comandante in capo del V settore d'armata di Rijeka, incarico con il quale è andato in pensione. Una carriera, quindi, in divisa. Che riassume però, in un'unica persona, una concezione tutta verticistica e antidemocratica.

Ma quale sarà ora il programma di Ceku è una incognita anche per gli stessi kosovari che lo hanno sostenuto nella lotta contro Belgrado. Una delle prime "questioni" che dovrà affrontare sarà legata al terrorismo albanese etnico-nazionale. E precisamente a quel Kosovo Protection Corps - definizione inglese per l'acronimo albanese Tmk, attuale reincarnazione dell'ufficialmente disciolto Uck - che si presenta sempre più come un'organizzazione paramilitare vera e propria. Mascherato con funzioni di protezione civile, il Tmk raccoglie formazioni di terroristi, proteggendo anche i traffici di droga e di armi. Ceku - che è stato alla testa di tale struttura - dovrà ora fare i conti con i suoi stessi compagni d'armi, sapendo in partenza che solo una soluzione drastica di segno democratico consentirà al nuovo Kosovo di ottenere quei riconoscimenti internazionali dei quali ha già bisogno.

Il macigno che grava su Pristina è, quindi, pesante. E va messo anche in relazione ad un significativo attivismo russo. Mosca - che non ha una rappresentanza diplomatica a Pristina - ha capito da tempo che la decisione sullo status del Kosovo è vicina ed ha pertanto iniziato a richiedere verifiche molto rigorose del raggiungimento degli standard. E la posizione russa non potrà essere ignorata perché sullo status del Kosovo dovrà decidere il Consiglio di sicurezza dove la Russia dispone del diritto di veto. Ipoteca moscovita, quindi, sul Kosovo indipendente? Non è questo il problema. Perché la Russia di Putin sa che dovrà mantenere buoni rapporti con tutta l'ex Yugoslavia. E il mondo slavo dell'Est, tra l'altro, non dimentica che in questa turbolenta regione la politica è stata sempre unita alla religione e, di conseguenza, manipolata a fini geopolitici.

Per dirla con l'Huntington dello Scontro di civiltà, "Quella che potrebbe sembrare una questione di carattere strettamente territoriale tra musulmani, albanesi e serbi ortodossi per il Kosovo (…) non può trovare facile soluzione, in quanto questi luoghi hanno per entrambi i popoli un profondo significato storico, culturale ed emozionale". Di conseguenza va rilevato che tra i tanti misfatti che lastricano il Kosovo ci sono, sino ad oggi, ben 150 edifici sacri - quelli della storia dell'ortodossia serba - che sono stati distrutti, e non per semplice vandalismo musulmano (kosovaro-albanese), ma con l'ambizioso obiettivo di riscrivere la storia culturale e religiosa della regione. Perché i musulmani di questa nuova nazione europea progettano di dare vita alla loro identità valorizzando la lingua dei loro antenati, le loro usanze, la loro religione o le opere emblematiche della loto cultura. Non siamo alla "Grande Albania", ma è pur vero che ricompaiono le schegge di un passato che sembrava sepolto.

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